Mi ha sempre affascinato il 26° canto dell’inferno per la sua rappresentazione dinamica, per la vivacità della narrazione e per la raffigurazione dei personaggi; ma ancora di più per quell’idea della sete di conoscenza di Ulisse che mai non si appaga.
Il canto comincia con l’invettiva contro Firenze dove Dante vede cinque personaggi fiorentini.
Dante assume un atteggiamento di rispetto e di considerazione per Ulisse: non lancia invettive, scherni o critiche, non lo umilia, per lui parla Virgilio.
Certo da uomo medioevale lo pone in uno dei posti peggiori dell’inferno, le Malebolge e tra coloro che hanno commesso i peccati più gravi, perché ha trasgredito le leggi divine ingannando, frodando, raccontando menzogne, non è sicuramente un modello da imitare.
Ma c’è in Ulisse quella sua sete di conoscenza che non si placa mai e lo porterà alla fine.
Incita i suoi uomini, ormai vecchi e tardi come lui stesso, a non vivere come bestie, ma seguire virtute e canoscenza.
Niente lo può fermare “né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta” …
Ma ci sono dei limiti voluti da Dio stesso e che l’uomo non può superare:
…quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. 135 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. 138
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141